Pensare… Sentire… Volere

Omaggio a Massimo Scaligero

Delle tre facoltà, pensare, sentire, volere, che l’uomo moderno ha unicamente riflesse dal fisico, una sola può essere da lui ripercorsa a ritroso sino alla radice metafisica: il pensare.

Il sentire e il volere, ripercorsi, lo riportano comunque a una radice fisica, non perché la loro essenza non sia metafisica, ma perché questa viene estromessa dal loro risonare nell’anima secondo il vincolamento della coscienza pensante alla corporeità fisica. Il vincolamento dell’anima alla cerebralità, alla corporeità fisica, riguarda il pensiero, non il sentimento né la volontà, che semplicemente subiscono le conseguenze di tale necessità del pensiero: la «caduta» del pensiero nella cerebralità, necessaria alla formazione della coscienza individuale e al processo inferiore della libertà.

Il pensiero può ripercorrere il proprio processo: con ciò attua il proprio autentico movimento, il movimento puro, indipendente dalla cerebralità: restituisce al sentire e al volere le rispettive legittime connessioni metafisiche. Nella sfera sopramentale, pensare sentire volere costituiscono una unità, normalmente smarrita nella sfera mentale. Mediante la conversione del pensiero, tale unità viene restituita.

Il pensiero riacquisisce il potere dell’automovimento, in quanto venga concentrato su un tema semplice, facilmente dominabile. Non è il tema che importa, bensì il pensiero impegnato in esso: che è sempre l’identico pensiero, sia che pensi la sedia, sia che pensi l’Apocalisse. Inizialmente il tema deve essere un oggetto costruito dall’uomo, o un contenuto matematico, in quanto l’impersonale pensiero che ne è alla base, rivissuto, ha il potere di liberare il principio cosciente dalla psiche soggettiva, legata alla corporeità: dà la garanzia di non deviare nell’inconscio, o nel medianico, o nel mistico. Questo pensiero è il concetto, indipendente dall’oggetto medesimo.

Il concetto, ricostituito, diviene, a conclusione dell’esercizio, oggetto di contemplazione.

I. Concentrazione. II discepolo si concentra su un oggetto, del quale considera la forma, la sostanza, il colore, l’uso, ecc., la serie delle rappresentazioni che ne esauriscono la struttura fisica, sino a che al suo luogo rimanga il contenuto di pensiero. Questa operazione non deve impegnare l’attenzione cosciente del discepolo meno di cinque minuti: al termine di essa l’oggetto deve essere dinanzi alla coscienza di lui come un simbolo, o un segno, o una sintesi, avente in sé indialetticamente tutto il contenuto di pensiero elaborato.

Questo è l’esercizio tipico della concentrazione, il cui processo, esigendo la cooperazione – sia pure momentanea – dei principi costitutivi dell’uomo, Io, anima, corpo sottile, corpo fisico, secondo gerarchia originaria, è fondamentale per lo sperimentatore moderno. Come esercizio tipico, esso è completo e può da solo, se rigorosamente praticato, condurre al reale equilibrio interiore e in séguito all’esperienza sopranormale.

L’importanza di questo esercizio consiste nella sua semplicità, che consente la massima intensità del pensiero cosciente. Il materiale chiamato alla costruzione di esso – rappresentazioni, ricordi, nozioni, forma discorsiva ecc. – non è la forza-pensiero, ma ciò di cui questa normalmente si veste per esprimersi, senza mai lasciar afferrare se stessa. L’esercizio tende a far affiorare nella coscienza questa in afferrabile forza-pensiero.

Ci si porta del tutto entro l’oggetto, considerandolo in sé, secondo le determinazioni che esso contiene, correlate all’unità che il pensiero già in sé possiede e perciò può ricostruire. Colui che crede di compiere un esercizio più aristocratico, pensando un simbolo sacro, o un deva, o un mantram, o un « mistero », non si avvede di non sfuggire alla propria personale natura, in quanto è già vincolato con il sentire subconscio al tema evocato: mentre può rendersi realmente indipendente dalla natura, ove muova con pensieri non imposti da questa, ma dalla impersonale obiettività del tema.

Considerando che non v’è oggetto costruito dall’uomo che all’origine non sia pensiero, il discepolo coltiva l’idea che, nella sfera dell’apparire terrestre, di continuo l’invisibile diviene visibile. Questa idea è il principio del superamento della parvenza. Qualunque oggetto costruito dall’uomo rimanda a un momento in cui non esisteva, ma era soltanto pensiero: tale pensiero è stato poi tradotto in concretezza sensibile. L’invisibile è divenuto visibile.

Non v’è produzione, o creazione, umana, che non rimandi a un momento di inesistenza, ossia a un suo vuoto originario, in cui è ritrovabile l’idea. Nessuno, guardando una macchina o un edificio, pensa che si siano fatti da sé. Ma è accaduto che dei primitivi, al primo contatto con oggetti o aggeggi della civiltà della macchina, credessero a meravigliose produzioni della natura: ma non come se quegli oggetti si fossero fatti da sé, bensì come se appartenessero al processo creativo dell’Universo. Verrebbe considerato un insufficiente mentale chi, guardando una bussola, pensasse che si sia fatta da sé. Non diversamente, però, il razionalista ingenuo, malgrado la sua logica analitica, oggi si comporta rispetto alla natura creata: non meglio del primitivo dinanzi allo sconosciuto mondo della macchina.

Se non v’è oggetto prodotto dall’uomo che non rimandi a un consapevole pensiero capace di concepirlo e realizzarlo, onde si può arguire come l’invisibile divenga visibile: ciò che non è stato prodotto dall’uomo e tuttavia esprime un potere creatore, rimanda a un Pensiero che l’uomo non è capace di pensare, almeno nel presente tempo. L’ascesi del pensiero ha appunto il compito di destare nell’anima la capacità di un simile Pensiero.

A una logica concreta non può sfuggire la posizione ingenua di colui che pensa che un organo perfetto come l’orecchio umano, o l’albero, o il baco da seta, si siano fatti da sé. Occorre scoprire che, come l’orologio rimanda al pensiero che l’ha determinatamente ideato e tecnicamente prodotto, onde tale pensiero è ricostruibile penetrazione della struttura dell’orologio, allo stesso modo il seme di una pianta rimanda a un pensiero che l’uomo è capace di immaginare, ma non di possedere come processo strutturale. Egli non possiede tale processo strutturale, come possiede quello dell’orologio. Manca al suo pensiero la possibilità di identificare quella forza che nella pianta funziona come processo ordinatore, archetipico, delle sostanze minerali. Mentre riguardo all’orologio egli può riprodurre questo processo archetipico del pensiero, non lo può con la pianta. I più valenti scienziati della Terra. messi insieme, non saprebbero riprodurre un filo d’erba.

L’uomo può operare soltanto su ciò che giunge a percepire: la cui percezione può tradurre in termini di pensiero: mediante il quale può riprodurre il percepito. Dei quattro regni della natura, minerale, vegetale, animale, umano, egli in realtà percepisce solo il minerale: degli altri tre regni gli sfuggono le forze sostanziali. Le quali usano rispettivamente, secondo elaborazione diversa, l’elemento minerale, per costruire la propria forma sensibile: la forza vitale della pianta, la forza vitale-senziente dell’animale, la forza vitale-senziente-mentale dell’uomo. Della pianta, dell’animale e dell’uomo, egli percepisce soltanto l’apparire minerale, elaborato a gradi diversi.

L’uomo in sostanza immagina il mondo in sé animato o vivente, ma non lo percepisce. Percepisce solo il minerale, l’inanimato: perciò non può costruire altro che meccanismi inanimati: egli può costruire un missile planetario, ma non può riprodurre il seme di una pianta. La sua produzione si arresta al limite sensibile inorganico, perché la sua percezione non va oltre tale limite. Di ogni ente vivente, egli suppone la vita, ma non la percepisce: della vita egli percepisce le manifestazioni sensibili, al livello minerale, ma non l’elemento causante, non sensibile, operante mediante la sostanza minerale. Dei regni della natura, invero, l’uomo non vede che l’apparire minerale, non le forze usanti la mineralità per edificare specificamente tali regni.

Giovandosi dei mezzi della chimico-fisica, lo scienziato attuale può anche riprodurre esattamente il seme di una pianta, formandolo con tutte le sostanze che compongono quello autentico, sino a conseguire una identità materiale e formale. Egli potrà avere dinanzi a sé i due semi, quello autentico e quello chimicamente riprodotto, cosi da non riuscire a distinguere l’uno dall’altro. La differenza si paleserà, quando egli immergerà nella terra i due semi: il seme artificiale si decomporrà, l’autentico darà luogo a una nuova vita.

Come l’orologio non si è fatto da sé, cosi il seme che genera una nuova vita non si è fatto da sé: esso si presenta come un pensiero realizzato, ma tale che il suo realizzarsi non si arresta all’apparire sensibile, in quanto non si identifica con la forma con cui appare, come l’orologio o qualsiasi altro oggetto costruito dall’uomo, ma si continua nel processo da cui sorge e per cui da esso è possibile la nascita di una nuova vita.

Normalmente, il processo fluente della vita nella pianta, viene pensato, o concepito, o immaginato, dall’uomo, ma non percepito. Egli può percepire gli effetti sensibili del processo della vita, in sé non sensibile, e in base ad essi concepire tale processo. Come dai dati sensibili dell’orologio può risalire al concetto dell’orologio, così dalla fenomenologia sensibile del seme può risalire all’idea di Vita: ma mentre nel primo caso il suo conoscere si trova dinanzi a un’identità di concetto e oggetto, che egli può del tutto possedere, così da poter mediante esso riprodurre l’orologio, nel secondo caso egli si trova dinanzi a un’idea che muove bensì da lui, ma in sé ha un nòcciolo che si riferisce a un impercepibile trascendente. Si tratta però per lui di scoprire che, in quanto è nell’idea, è immanente.

La concentrazione realizza questa immanenza.

Al materialista sfugge la trascendenza del nòcciolo immanente dell’idea di Vita, in quanto identifica il processo della Vita con il processo della Materia, però fornendo questo dello stesso fondamento ideale: inconsapevolmente cadendo nel realismo ingenuo di chi, vedendo per la prima volta un orologio, pensa che si sia fatto da sé. L’idealista invece crede a un processo spirituale della Materia, ma ritiene di possederlo solo per il fatto che lo pensa: non si accorge che egli pensa riflessamente il nòcciolo dell’idea. Non intuisce un compito decisivo, dal punto di vista empirico e idealistico, che muterebbe corso della sua vita, facendogli fare il passaggio dall’inerte filosofare all’azione interiore, o ascetica: sperimentare ciò che, immanendo nell’idea, è il nòcciolo trascendente del pensiero: intuibile come forza organizzatrice della Vita del vivente, allo stesso modo che il concetto dell’oggetto fisico è intuibile come suo astratto principio”.

Massimo Scaligero, da “Tecniche della concentrazione interiore”.

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